Gelo e tempo di purificazione. Le feste e le cerimonie in campagna hanno tutte funzione lustrale e fecondante, pulizia dei campi e purificazione degli uomini e degli animali. Le ritroviamo nei riti invernali della Roma antica (il capodanno giuliano in uso anche a Venezia). Una scrofa gravida veniva sacrificata alla Grande Madre Cerere, dea della fertilità, dei raccolti e della nascita dei frutti, colei che si pensava avesse insegnato agli uomini la coltivazione dei campi. Nell’Olimpo, tra Giove, Giunone, Nettuno, Vesta e Plutone, c’è Cerere, una matrona bella e affabile, con le spighe in capo, una fiaccola in una mano e un canestro ricolmo di grano e di frutta nell'altra.
Sant’Antonio del porcèl, nato e vissuto ad Alessandria d’Egitto tra il 250 e il 356 d.C., si sostituisce a lei nell’era cristiana e il 17 dicembre, data presunta della sua morte, sul sagrato delle chiese si benedicono gli animali domestici e le auto (un tempo i carri). I contadini appiccicavano il santino di Sant’Antonio sulla porta della stalla, si macellava il maiale e si preparava un dolce che, una volta benedetto, veniva dato in pasto a uomini e animali malati. Sì perché il Santo è sempre stato considerato anche il vincitore del Male. È il guaritore del cosiddetto “Fuoco di Sant’Antonio” (l’Herpes Zoster) e i falò che si accendono il 17 gennaio nel bergamasco sono purificatori e benauguranti, come da noi il Panevin. Il porcello del Santo altro non è che il diavolo, il Male, sconfitto e sottomesso dall’eremita, ma anche… furbo e approfittatore, mangiatore di pane a ufo. Il “porcello di sant’Antonio” è detto dello scroccone che cerca di fare un buon pasto a spese altrui. Sant’Antonio del porcèl viene festeggiato ogni anno a Bergamo, città d’origine della famiglia Passi de Preposulo, nella chiesa di San Marco, guarda caso quel Marco, anche lui di Alessandria d’Egitto, che tanto successo avrà a Venezia, come poi anche nel bergamasco.