In occasione dell’8 dicembre, un piccolo racconto della “Vita in Villa”, governata dalle donne e protetta dalle Madonne della casa.
“Orsù dunque, Avvocata nostra, rivolgi a noi…”: la voce altisonante della nonna Maria e il coro delle pie donne del paese riunite in chiesina per il rosario quotidiano delle tre. E io non potevo fare a meno di chiedermi, ogni volta, che ci stessero a fare un orso e un avvocato con la Madonna. Dopo aver suonato campanella e botto giocando con le funi nella torre campanaria, non ero riuscito a scantonare e la nonna, una volta di più, mi aveva voluto vicino a sé. Le ginocchia mi dolevano sul gradino gelido di marmo dell’altare, e un po' fantasticavo, un po' dicevo anch’io improvvisando in quel “bimbumbam” di voci, ansiti, respiri, accenti, mezzi toni, silenzi. Lieto, leggero e sentendomi più buono quando quelle preghiere, alzando i toni e stropicciando le parole (in latino) andavano finendo a ritmo di tamburo con i misteri gaudiosi, nell’impeto e trionfo della fede.
Ai Morti il rosario lo si diceva dai nonni in salotto (troppo umido in chiesina), tutti inginocchiati tra divani e tavolini da canasta. C’era anche mia madre allora, e a volte la nonna Emilia, arrivata da Torino. A lei bastava lanciassi un’occhiata di traverso, tra un Santamaria e l’altro, e partiva, non c’era verso, le veniva il “boresso”, un “incocconamento” di risate soffocate fino alle lacrime. E io dietro, con mio fratello e tre sorelle, un’epidemia di ridarola tra fremiti trattenuti e singhiozzi repressi. E ovviamente arrivavano anche le occhiatacce, soprattutto delle zie - due sorelle di mio padre e le tre cugine zitelle del nonno - che facevano finta di niente alzando gli occhi al cielo, ma si capiva che deploravano.
Il nonno Sandro, pater familias, a fine rosario, quando ci si assiepava intorno alla tavola con tè, cioccolata calda, biscotti e le favette colorate dei morti, guardando nel vuoto (la consuocera, affatto pentita, ma un po’ vergognosa, seduta alla sua destra), commentava serio con il proverbiale “risus abundat…”.
Al rosario partecipavano anche le altre donne di casa. La Emma, che governava il Brolo dove razzolavano i polli e per questo, credevo io, si chiamava Emma Polo. C’era l’Imelda, la nostra amorosa custode, e sua sorella Tona che veniva a lavorare in guardaroba. E c’erano l’Armida, la cuoca veneziana e Maria, la nostra tata.
Donne e Madonne. Sì, perché ogni angolo della Villa era - ed è ancora - presidiato da un’icona di Maria. La Madonna del Rosario in chiesina, tra i santi Girolamo e Gaetano; la Madonna del cantinon, che dal muro esterno della cantina osservava il lavoro nelle campagne; la Madonna dei temporali, posta in un vano a mezza scala in casa dei nonni, il cui lume sempre acceso proteggeva la nonna terrorizzata da tuoni e lampi dei temporali estivi; c’era in biblioteca la Madonna della Fuga in Egitto, una preziosa incisione di rame, dono dello zio arcivescovo Carlo Alberto; e la “Madonnetta” di Lourdes, con la Santa Bernadetta, della grotta in fondo al giardino, la preferita di noi bambini, perché era lì che andavamo a nasconderci e a combinare marachelle, ben più che a pregare
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